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robertogoldin ha scritto 76 articoli per Roberto Goldin

Basta unire i punti.

Ho già più volte espresso una mia personale convinzione, non a fronte di un’illuminazione – percezione – rivelazione, ma a seguito della semplice unione di “punti” nel quadrante della storia contemporanea. Ciò che ci appare come caos non è il frutto dell’incontrollabile corso degli eventi ma un sapiente e predeterminato percorso a tappe. La storia ha preso una direzione, precisa.

  • Uno di quei “punti”, a titolo d’esempio, è la guerra in Ucraina: avete visto l’intervista a Soros alla CNN dove egli ammette candidamente d’aver finanziato i movimenti separatisti.
  • L’inazione verso i crimini sionisti è l’agire passivo, è uno di quei “punti”.
  • La dimenticata ma recente guerra libica, che si riaffaccia nuovamente oggi, ha tolto di mezzo Muhammad Gheddafi, l’elemento chiave per la geopolitica nordafricana e per il riaffacciarsi dell’asse politico-economico Libia-Italia-Russia (Vi ricordate il caso Mattei?).

E via dicendo.
Come sostengo, la fretta esasperata di costruire un blocco continentale europeo compatto, privo dei meccanismi lenti e imprevedibili tipici delle democrazie ma autoritario, ha un senso, e tale senso si svolge nello stesso flusso storico contemporaneo di cui parlavo prima.
Il titolo della maratona RAI “Le guerre alle porte dell’Europa” è quanto mai esplicativo e rafforza la tesi di questa direzione storica.

RAINEWS24: LE GUERRE ALLE PORTE, UNA GIORNATA DEDICATA ALL'INFORMAZIONE

RAINEWS24: LE GUERRE ALLE PORTE, UNA GIORNATA DEDICATA ALL’INFORMAZIONE

Il media che ad oggi ancora connette la maggior parte degli europei è la televisione, lo strumento che ha creato progressivamente opinioni di massa, che ha distrutto l’informazione e la capacità di analisi individuale. Una volta si usavano le pellicole.

 

Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale. Il futuro geopolitico del pianeta

Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale. Il futuro geopolitico del pianeta

Inizia la propaganda mediatica; necessaria per invertire l’implosione europea a cui faceva riferimento Huntington: l’implosione culturale, demografica, politica. Tale inversione prevede la rinascita di un nuovo spirito comunitario, la riscoperta di una forte coesione identitaria europea comune. E “IL” sistema più antico, collaudato ed efficiente è proprio quello della necessità di fare gruppo e difendersi dalle minacce esterne.
Ecco le minacce. Ecco il demonio. Costruito.
Nei prossimi mesi proseguirà il processo di ricompattamento dell’occidente, di cui il più recente è il TTIP e a complemento la compromissione dei rapporti con il versante euroasiatico.

Si inaspriranno progressivamente i rapporti diplomatici tra il blocco del nord Atlantico e la Russia.La percezione del pericolo imminente si propagherà e si solidificherà soprattutto quando gli USA incrementeranno in modo cinematografico la presenza militare in Europa;

Le disumane provocazioni sioniste presto o tardi travalicheranno la pazienza del principale nemico occidentale, l’Iran. Guardate, non è necessario che l’Iran reagisca con azioni militari, basta che si pronunci diplomaticamente contro i crimini sionisti ed otterrà istantaneamente ritorsioni economiche, embarghi e (se è successo oggi in Ucraina e se è già successo nel ’53 nello stesso Iran) destabilizzazioni politiche interne, che a loro volta produrranno l’inasprimento del regime autoritario in Iran.

Nel quadrante storico ci sono già dei “punti”, dei fatti, che ancora non abbiamo collegato. Ma ciò che chiamiamo “storia” e che nella nostra penosa cultura scolastica coincide con “passato”, è in realtà un tracciato di eventi di cui noi siamo parte integrante. Con l’azione o con l’inazione, con l’interesse o con il disinteresse.

 

L’Italia diventerà povera quanto la Germania.

L’Italia diventerà povera quanto la Germania.

20/07/2014

 

Mario Monti, 20 gennaio 2013: «Noi ammiriamo la Germania e vogliamo imitarla in alcune riforme».

Beppe Grillo, 15 marzo 2013: «Dobbiamo realizzare un piano comparabile con l’Agenda 2010 tedesca, quel che ha dato buoni risultati in Germania lo vogliamo anche noi».

Matteo Renzi, 17 marzo 2014: «La pretesa di creare posti di lavoro con una legislazione molto severa e strutturata è fallita, dobbiamo cambiare le regole del gioco: in questo senso abbiamo nella Germania il nostro punto di riferimento».

“Fare come la Germania” è il mantra di tutti, fino al Jobs Act renziano.

Storia:

nel 2003 il socialdemocratico Schroeder ha smantellato i diritti sociali e tagliato gli stipendi ai lavoratori, per poter rilanciare un’economia basata interamente sull’export e quindi sul basso costo del lavoro. La riforma prende il nome da Peter Hartz, industriale della Volkswagen. Un genio? Fate voi: “Hartz ammette di aver corrotto i sindacalisti Vw ed evita 10 anni di carcere”, titolò di recente il “Sole 24 Ore”. Facile, no? Risultato: nel regno della Merkel dilagano i mini-job da 450 euro, che dopo una vita di lavoro danno diritto a una pensione di 200 euro mensili.

Hartz

Hartz ammette di avere corrotto i sindacalisti Vw ed evita 10 anni di carcere.

 

Riforma Hartz: una riforma riuscita?

E’ riuscita la riforma Hartz ad assicurare un livello minimo di reddito o, piuttosto, ha generato salari minimi, precarietà e impieghi sottopagati? C’è chi parla addirittura di scandalo sociale.

I dati comunicati dall’Eurostat nel dicembre 2012 mostrano come la Germania sia effettivamente il Paese occidentale con la percentuale maggiore di lavoratori a basso salario (22,2%), rispetto alle medie di Paesi come Francia (6,1%) o quelli scandinavi (tra il 2,5% e il 7,7%), a fronte di una media dell’Eurozona pari al 14,8%.

In sintesi il risultato della riforma Hartz pare sia questo: chi non lavora riceve un trattamento di disoccupazione inferiore al periodo precedente alla riforma e chi lavora riceve comunque salari più bassi. Secondo le statistiche infatti i salari lordi reali, al netto degli aumenti, sono scesi dell’1,8% dal 2000 al 2012.

Tratto da:

http://www.libreidee.org/tag/minijob/

http://www.forexinfo.it/Welfare-riforma-tedesca-Hartz-cosa

 

 

Il Partito Democratico – Basta andare solo oltre il velo dell’apparenza.

Il Partito Democratico – Basta andare solo oltre il velo dell’apparenza.

Il PD.

Ditemi cosa si riesce a capire di questo partito.

Sul sito del partito c’è l’Intevista a Filippo Taddei. Chi è?

Filippo Taddei

Filippo Taddei

Responsabile economico del PD. Ripeto, il responsabile economico del PD. Tra le mille e mille figure di spicco nella scena anche internazionale dell’analisi macroeconomica, il PD ha scelto Filippo Taddei. Un motivo ci sarà.

Nel suo curriculum: Docente di economia alla Johns Hopkins University SAIS e ricercatore del Collegio Carlo Alberto.

Cos’è il Collegio Carlo alberto? Leggiamolo sul sito ufficiale:

“The Collegio Carlo Alberto is a joint venture of the Compagnia di San Paolo and the University of Torino. Its mission is to foster research and education in the social sciences.”

Proviene quindi da un Think Tank che, come espressamente dichiarato all’art. 3 dello Statuto della Fondazione, si prefigge:

lo scopo di promuovere, gestire e potenziare, in unità d’intenti con l’Università degli Studi di Torino, la ricerca e l’alta formazione nell’ambito delle scienze economiche, politiche e sociali, nonché in aree disciplinari affini.

Le scienze politiche e sociali del PD sono un prodotto scientifico di un istituto di credito.

Se non sei un coglione, caro elettore del PD, devi renderti conto di questa realtà. Svegliati dal rassicurante torpore ideologico, e prendine atto.

Il PCI non esiste più. Non esite.

C’è invece questa cosa qua, il PD.

Appena scosti il velo rosso dell’apparenza socialista trovi questi giovani allevati, formati, istruiti da banche.

Una cosa completamente pilotata dal settore del credito e della finanaza, ovvero da chi ha interessi specifici e diretti riguardo il ridimensionamento del ruolo politico del Governo.

Il PD è in sostanza una lobby già al governo.

Vi invito a leggere l’articolo. Non è necessario avere una particolare conoscenza, ve lo assicuro. E’ al tempo stesso esilarante e deprimente.

Riguardo al cuneo fiscale, Renzi intende agire sull`Irap per le imprese e sull`Irpef per i lavoratori. Quanto potrebbe costare questo intervento e come potrebbe essere coperto?

[…]La riduzione dell `Irap di cui ha parlato il presidente del Consiglio è del 10% e vale circa 2,3-2,5 miliardi.

Ma che cazzo ce ne facciamo di 2,5 miliardi…

Quanto dovrebbe finire in tasca ai lavoratori, e perché non parla di dipendenti?

[…]Con questo piano di riduzioni pensiamo di restituire circa 500 euro l`anno. Non gli cambierà la vita ma di certo lo aiuta. Per una famiglia, con figli e in cui due persone lavorano, avere 500 curo in più all`anno può fare la differenza.

HAHAHA…due persone che lavorano in famiglia…

Ma le clamorose bugie e pressapocaggini del versante sociale sono ripagate con una efficienza e determinatezza sul versante del conflitto d’interessi.

Il decreto Bankitalia, sul quale pende anche un atto formale della UE al quale però non darei molta importanza, favorisce in prima istanza proprio la San Paolo:

Suddivisione quote di partecipazione in Bankitalia

Suddivisione quote di partecipazione in Bankitalia

Partecipanti al capitale

Bankitalia ha prodotto un documento che relaziona il metodo adottato per il ricalcolo, Dividend Discount Model:

Stima del valore delle quote della BI – Dividend Discount Model a due fasi

Stima del valore delle quote della BI – Dividend Discount Model a due fasi

5,9 miliardi.

Roberto

Dossier Argentina – per capire l’elezione di Jorge Mario Bergoglio

Dossier Argentina

Carlo Talenti

II.1 Dossier Argentina

 

II.1.1. L’editoriale di congedo in prossimità delle vacanze estive, suggerendo qualche buona lettura, metteva opportunamente in evidenza il libro segnalato in La sezione laica, L’isola del silenzio di Horacio Verbitsky, coraggioso giornalista che ha denunciato al mondo alcune vergognose violenze compiute dai militari argentini in pieno accordo con la chiesa cattolica. Il testo dell’editoriale – forse per le urgenze imposte alla redazione dalla mancanza di tempo – non rende tuttavia piena giustizia a Verbitsky, perché presenta come “ipotesi” fatti che – dopo la caduta della dittatura – sono stati rigorosamente documentati e accertati in sede di processi pubblici nei confronti dei responsabili delle torture e delle sparizioni di individui innocenti. Per fugare possibili equivoci dedichiamo il primo articolo del secondo anno de La questione laica al Dossier Argentina citato nella recensione in questione. Il testo completo del dossier è disponibile su internet mediante Google nella voce “Dossier Argentina”, oppure con il richiamo “hortusmusicus.com/pdf/587”. Ci limitiamo quindi a darne un breve riassunto con qualche commento.

II.1.2. Il dossier, opera di Gaspare De Caro e Roberto De Caro, comprende nove fitte pagine su tre colonne e ha per titolo Breve storia dell’Argentinitad. Le ultime due pagine sono dedicate alla bibliografia, con citazioni documentarie. I due autori segnalano come testo fondamentale per il loro lavoro di sintesi il libro di Loris Zanatta, Dallo Stato liberale alla nazione cattolica.

Loris Zanatta

Loris Zanatta

Chiesa ed esercito nelle origini del peronismo. 1930-1943, Franco Angeli, Milano 1996. Il quadro storico che se ne ricava offre una accurata documentazione di eventi tragici, e si può considerare paradigmatico per convalidare una teoria della legittimazione della violenza ad opera della religione, e in particolare della religione cattolica del nostro tempo.

I poteri in gioco sono quelli classici: religioso, militare, politico e nello sfondo, ma di grande peso, quello economico. Disputato tra il potere religioso e il potere politico sta il potere educativo. Quest’ultimo, per quanto al senso comune sembri di importanza primaria perché predispone i costumi e le conoscenze tecniche e teoriche dei gorvernati (sudditi o cittadini), in realtà opera secondo indirizzi di potere gerarchicamente più alti. E tra i quattro poteri citati, quelli che legittimano l’uso della violenza sono o quello sacro della religione o quello profano della politica; e questi appunto tendono a controllare gli indirizzi

dell’educazione.

La forza, come tale, è costituita o dall’esercito o dalla ricchezza, ma più concretamente da un intreccio dell’uno e dell’altra. Infatti, tenendo conto che la ricchezza costituisce una forza mobile e flessibile in moneta o in metalli preziosi o in titoli di credito, mentre un esercito possente è il risultato di una grande massa di uomini e di armi, di una complessa organizzazione e di un lungo esercizio, quasi sempre il controllo più consistente della forza è dato dalla ricchezza. Certo una volta costituito, un esercito può rivolgersi anche contro chi lo finanzia, ma non fino al punto di eliminare i produttori della ricchezza che lo sostengono; perciò, la forza si presenta come una varia combinazione del potere economico e del potere militare.

Ne consegue che religione e politica si disputano il controllo della forza offrendo lo strumento prezioso della legittimazione che giustifica l’arbitrio inevitabile con il quale la forza viene esercitata. Tra di loro prevale il potere che riesce a presentare l’arbitrio come un arbitrato accettabile dalle parti sociali in lotta. Per millenni questo privilegio è stato esercitato dalla religione, che opera sempre in nome di forze soprannaturali alle quali tutti gli uomini sono obbligati ad inchinarsi. Col tempo la politica si è poi resa sempre più autonoma dalla religione e ha offerto forme di legittimazioni giuridiche puramente profane, meno inique e autoritarie, e spesso in contrasto con le antiche autorità religiose.

Il “caso Argentina”, a partire dall’Ottocento, presenta una esemplificazione elementare di questa distribuzione dinamica dei poteri e del grado di violenza che il prevalere della legittimazione religiosa può giustificare .

II.1.3. Nel 1816 l’Argentina si proclama definitivamente indipendente dalla Spagna e da quel momento la sua politica è condizionata dalla lotta tra movimenti progressisti e forze conservatrici che, nella prima metà dell’Ottocento, trasformano la carta politica del centro- e del sud-America dando origine a stati nazionali autonomi. Solo il Brasile si organizza in monarchia costituzionale ad opera di Pedro I, reggente della colonia e figlio del re del Portogallo Giovanni VI, rientrato in patria dopo le guerre napoleoniche.

Antônio Joaquim Franco Velasco Dom Pedro I mperador do Brasil

Antônio Joaquim Franco Velasco Dom Pedro I mperador do Brasil

L’orientamento delle forze indipendentiste è in genere liberale secondo gli ideali illuministici ed è in parte sensibile alle idee del socialismo utopistico che precede le dottrine di Marx.

Le nuove configurazioni nazionali passano attraverso un periodo di assestamento nel quale si alternano fasi di anarchia ad altre di tirannia, sia per la definizione dei propri confini territoriali, sia per la neutralizzazione delle forze conservatrici che a tratti riconquistano il potere. Le rivendicazioni sono, in buona parte, quelle classiche che si stanno da tempo affermando in Europa: sovranità popolare, governo rappresentativo, eliminazione o riduzione dei privilegi ecclesiastici, libertà di parola, libertà di stampa, abolizione della schiavitù, diffusione dell’alfabetizzazione con rafforzamento dell’istruzione scientifica negli studi medio superiori, istituzione di università e accademie statali, finanziamento dei settori della ricerca specialistica più avanzata, e infine rifacimento dei codici di diritto civile, commerciale e penale. Tutti obiettivi che trovano la loro garanzia nella redazione di nuove carte costituzionali. L’Argentina trova il suo assetto moderno nella costituzione del 1853, che riunifica tutte le province provvisoriamente staccate dal governo di Buenos Aires.

Nel complesso la seconda parte dell’Ottocento costituisce un periodo di relativo consolidamento dei nuovi ordinamenti e orientamenti liberali, con qualche apertura ai problemi della giustizia sociale. Anche in Argentina le conquiste dello stato liberale sembrano ben avviate: separazione tra stato e chiesa, controllo politico sull’esercito, sull’istruzione elementare, superiore e universitaria, e libertà di insegnamento che favorisce libertà di costumi e di convinzioni religiose. In questo contesto, il cattolicesimo non è la religione di stato, i vescovi devono essere nominati con il gradimento del governo, l’istruzione religiosa cattolica non è obbligatoria.

Generalmente, la filosofia dominante è il positivismo di Comte, Stuart Mill e Spencer. Ciò non impedisce un notevole sviluppo dell’attività letteraria e della ricerca storica, e il rinnovamento delle arti figurative. Queste tendenze trovano espressione in molte riviste specialistiche e nella grande stampa di informazione. Si tratta di orientamenti politici, sociali e ideologici aspramente avversati dal Vaticano, che si attiene rigidamente alla condanna del processo di secolarizzazione sanzionata dal Sillabo emanato l’8 dicembre 1864 da papa Pio IX.

Dapprima, la legittimazione dell’esercizio della forza sembra rimanere saldamente in mano allo stato argentino; tanto che, nel 1884 viene espulso il delegato apostolico in seguito alla sua dura reazione contro la decisione governativa di affidare la direzione di alcune scuole ad educatori protestanti. E ancora nel 1899, mentre è presidente l’anticlericale Julio A. Roca, l’esercito ha mano libera per attuare un vero e proprio genocidio degli indios, che prelude alla formazione di grandi latifondi in mano ad un ristretto ceto di ricchi borghesi. Il Vaticano protesta invano contro questo massacro, sostenendo che i militari sottraggono gli indios all’incivilimento culminante nella conversione al cattolicesimo. Una motivazione piuttosto tendenziosa, che non condanna nella sostanza l’intervento, ma che avanza una presunzione di diritto nell’esercizio del potere.

Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento l’assestamento della composizione gerarchica dei vari ceti sociali è condizionato dai continui flussi di immigrazione dall’Europa che offrono manodopera a buon mercato e contemporaneamente l’opportunità per pochi di costruirsi grandi fortune. Spesso al seguito dei nuovi venuti si trova un clero povero e diseredato, per lo più opportunista, ma col tempo sempre più sensibile al diffondersi dell’ingiustizia sociale.

Fin quando si sente forte, lo stato argentino tratta la chiesa come instrumentum regni, incoraggiando la formazione di un clero “devoto alla sovranità della nazione”. Ma intanto favorisce l’apporto di ingenti capitali stranieri e l’incremento del commercio internazionale. Con questi sviluppi della politica liberista si esaurisce l’orientamento progressista del movimento iniziato con la dichiarazione di indipendenza dalla Spagna.

II.1.4. All’inizio del Novecento, coma accade in Europa, si diffondono alcune filosofie che criticano il positivismo e l’esaltazione del progresso scientifico e tecnologico da parte dei ceti imprenditoriali; in particolare, le filosofie di Boutroux, di Bergson, di Croce e di William James; al loro seguito, ritornano orientamenti idealistici e spiritualistici più aperti al dialogo con l’esperienza religiosa. Intanto il Vaticano, esperto ormai degli esiti del processo di secolarizzazione in Europa, vede prontamente delinearsi la debolezza crescente della politica anticlericale dello stato liberale e programma con lungimiranza un inarrestabile processo di restaurazione. Costruendo abilmente una solidarietà sempre più stretta con l’esercito, la chiesa cattolica potrà alla fine presentarsi come la più sicura espressione dell’argentinitad, cioè della identità nazionale.

Il punto debole dei governi liberali è il loro crescente timore di fronte alle rivendicazioni sociali dei ceti diseredati e sfruttati. Prima ancora che si affermi la rivoluzione russa, la chiesa cattolica argentina organizza i suoi interventi con una critica implacabile al comunismo, presentato come conseguenza inevitabile della dissolutezza di costumi favorita dalla libertà di pensiero, di stampa e di educazione. Così, come prevede l’analisi marxista, i liberali si rendono gradualmente conto che, al di là delle buone ragioni della cultura laica, i loro più sicuri alleati politici possono essere soltanto i difensori della tradizione e cioè i cattolici, che in Argentina non fanno tempo ad organizzarsi in un partito politico, ma vengono inquadrati direttamente nelle associazioni clericali guidate dal Vaticano.

Intanto, in Europa, terminato il massacro della prima guerra mondiale, il dopoguerra è caratterizzato da scompensi sociali e politici che danno origine, in Russia, al regime sovietico, e nel resto d’Europa, all’affermazione di molti movimenti fascisti; purtroppo le democrazie liberali assistono incerte a queste derive di destra fino allo scoppio della seconda guerra mondiale.

Lontana da questi eventi, la chiesa cattolica argentina può attuare il suo piano restauratore con la massima intolleranza, perché gode il vantaggio di un contesto continentale costruito sulle solide e spietate tradizioni autoritarie della monarchia spagnola – o di quella portoghese in Brasile – tradizioni che non hanno dato spazio ai movimenti protestanti europei. La presenza di questi ultimi negli Stati Uniti d’America non rafforza i movimenti liberali dell’America Latina, perché ai nordamericani interessa soltanto poter controllare il Centro- e il Sud- America come fonte di materie prime e come mercato privilegiato.

Quanto alle popolazioni indigene, la situazione delle due Americhe è simile: il Nord-America ha fondato il suo sviluppo sul genocidio degli “indiani”; il Sud-America sul genocidio dei maya, degli aztechi e degli indios. Gli USA non concedono privilegi al Vaticano sul proprio territorio, ma possono tranquillamente tollerare che i meso- e i sud-americani sviluppino la propria religiosità in un meticciato di tradizioni pagane assorbite dal cattolicesimo.

Il Dossier Argentina di Gaspare e Roberto De Caro documenta inequivocabilmente come l’Argentina abbia costituito per il Vaticano una specie di laboratorio sperimentale per realizzare in piena autonomia quella restaurazione religiosa che vorrebbe sradicare ogni forma di secolarizzazione e di modernità in tutti i paesi dell’Occidente dove la chiesa cattolica è presente. Ripristinare l’identità cristiana e soprattutto cattolica nei paesi di cultura occidentale è l’obiettivo primario per passare successivamente alla missione di diffondere il Vangelo nel mondo, che significa poi vagheggiare la conversione forzata di tutte le genti.

La controffensiva cattolica in Argentina inizia con il Concilio plenario dell’America Latina del 1899 tenuto a Roma da papa Leone XIII. Gli ultimi interventi decisi autonomamente dallo stato argentino sono la repressione cruenta – con centinaia di vittime – di alcune rivolte sociali: quella della “Semana Tragica” del 1919 e quella degli scioperi del 1921-22 in Patagonia, contro l’industria laniera inglese. Ma proprio questi episodi mettono in evidenza che lo stato liberale è ormai pronto a schierarsi a fianco delle forze più conservatrici.

Intanto la restaurazione procede inflessibile, ma sceglie la conquista delle istituzioni educative, evitando uno scontro frontale con le istituzioni politiche.

Nel 1914 il Vaticano impone l’uniformità e l’ortodossia dottrinale negli istituti confessionali che gestiscono l’istruzione primaria e secondaria in luoghi dove lo Stato non riesce a garantire l‘istruzione obbligatoria. Nel 1916, presso il seminario metropolitano di Buenos Aires viene istituita la prima facoltà del Sud America “autorizzata a rilasciare titoli accademici in filosofia, teologia e diritto canonico”. Il clero secolare, esposto al lassismo dei costumi quotidiani dei fedeli, viene riportato sotto la rigida giurisdizione dei vescovi. Contemporaneamente viene organizzata una imponente immigrazione degli ordini religiosi cattolici europei: e per primi si insediano diffusamente i salesiani. Arrivati in dieci a Buenos Aires nel 1975, venti anni dopo possono vantare 35 istituti disseminati nella capitale e in diverse province. Seguono i Passionisti, i Cappuccini, i Redentoristi, I Padri del Verbo Divino, i Lassalliani, i Francescani e i Domenicani; ma soprattutto si consolidano i Gesuiti, depositari di una lunga esperienza educativa delle classi agiate.

Intanto la minaccia sempre più incombente dei movimenti socialisti accelera il processo di avvicinamento della chiesa cattolica alle autorità governative, che ormai non hanno più una ideologia forte da imporre alle forze armate. Così, l’evento decisivo della restaurazione cattolica è la riconquista dell’esercito che preesisteva allo stato liberale, coinvolgeva il popolo in forza del servizio militare obbligatorio, disponeva di una struttura gerarchica estranea agli orientamenti liberali, ed era ormai il solo potere disponibile per intervenire nella repressione delle agitazioni sociali. Caduti gli ideali progressisti dell’indipendenza e del costituzionalismo, il governo può fare intervenire l’esercito in nome della “sacra difesa della patria argentina”. Ma se questa si identifica con l’ideologia cattolica cade ogni autonomia dello stato laico.

La documentazione raccolta da Gaspare e Roberto De Caro sulla cattolicizzazione dell’esercito argentino è impressionante. Fin dal 1923, con la riforma del clero castrense, la chiesa cattolica si impegna a rafforzare le strutture ecclesiastiche nelle forze armate. Particolarmente significativa è la nomina di monsignor Copello, già vicario generale dell’archidiocesi di Buenos Aires, a “vicario generale dell’esercito, assimilato al grado di colonnello”. Ma gli interventi più duri vengono attuati negli anni Trenta.

Copello organizza una chiesa militare con “biblioteca selezionata” e situata in un quartiere abitato da militari. Lo scopo è quello di farne un luogo di “aggregazione e acculturazione delle forze armate e delle loro famiglie, al di fuori delle caserme”. Il Circolo Militare diventa sede di conferenze tenute da “sacerdoti intellettuali” che spiegano agli ufficiali l’incompatibilità del socialismo e del comunismo con l’essenza cattolica della nazione. La “pomposa cerimonia” di inaugurazione della chiesa castrense avviene l’11 ottobre 1930 e rende pubblico il reciproco riconoscimento politico dei vertici militari ed ecclesiastici. In tale

occasione Monsignor Franceschi, incaricato del discorso inaugurale, proclama l’esercito “garante della nazionalità” non solo contro i nemici esterni, ma anche contro i nemici interni che mirano a corrompere l’identità cattolica della nazione argentina.

Contemporaneamente la chiesa lancia una campagna per il ripristino della pena di morte sostenendo che “la pena di morte è condannata dagli ingenui e dalla feccia della società”. Poi approva l’irrigidimento della legge marziale, accompagnata dalla limitazione della libertà di stampa e dalle epurazioni negli atenei. Barrants Molina, noto giornalista cattolico, individua nel soldato e nel sacerdote “i baluardi della patria”.

Il trionfo di questa politica restauratrice è il congresso eucaristico di Buenos Aires, al quale partecipano “masse immense di argentini”. A Tucuman nel 1933, in un congresso eucaristico preparatorio “800 soldati condotti dai loro ufficiali celebrano l’eucarestia”, un evento che diventa modello di cerimonie analoghe in tutto il paese. E infine tra l’11 e il 12 ottobre del 1934, sotto la regia di monsignor Cortesi, nunzio pontificio, il congresso eucaristico di Buenos Aires culmina nella grandiosa manifestazione di “1.200.000 fedeli che ricevono l’ostia consacrata. Particolarmente significativo è il fatto di aver educato i machos argentini ad affiancare in massa le donne in una pratica che era rimasta fino allora

tipicamente muliebre.

Padre Caggiano, assessore generale dell’Azione Cattolica, subentra a Copello alla guida del vicariato castrense, e con lui si avvia ad una brillante carriera ecclesiastica monsignor Grasselli, nominato da Caggiano segretario particolare. E qui arriviamo ai nomi dei responsabili diretti degli eventi richiamatida Horacio Verbitsky in L’Isola del silenzio. Ma per completare il percorso di preparazione che ha portato a questi ultimi sono importanti ancora due citazioni.

Pio XII, in quegli stessi anni, esprime pubblicamente il suo apprezzamento per il generale Franco in Ispagna, per Mussolini in Italia, per Salazar in Portogallo: tutti variamente meritevoli per una rinnovata presenza della chiesa cattolica nella politica di popoli che erano stati “corrotti” dalle illusioni della modernità; e nel 1940 indica l’Argentina come “modello di recristianizzazione”.

Qualche prudente riserva della chiesa cattolica verso la politica paganeggiante di Hitler non ha poi impedito la fuga in Argentina di molti nazisti responsabili di crimini contro l’umanità. Proprio l’Argentina, rieducata ferocemente alla restaurazione cattolica e alla eliminazione dei suoi nemici, era ormai diventata il rifugio ideale per coloro che avevano orgogliosamente combattuto il pericolo dell’ateismo comunista.

Il pronunciamento del 4 giugno 1943 dell’”esercito cristiano” pone fine al lungo periodo di governi costituzionalmente liberali, dando avvio ad una liturgia clerico-militare che riconosce la “Vergine Maria” come “generalessa” per decreto governativo. Questa appunto è l’Argentina ricevuta in eredità da Peron, da Alfonsin e da Videla. L’Argentina che avrebbe voluto assolvere i torturatori e i responsabili del destino infausto dei desaparecidos.

Il Dossier Argentina mostra in tutta evidenza che le vicende documentate da Horacio Verbitsky in L’Isola del silenzio non sono altro che il corollario coerente della politica argentina sottomessa alle direttive del Sillabo di papa Pio IX.

Monti, minaccia e/o risorsa della casta.

 

Monti, minaccia e/o risorsa della casta.

di Roberto Goldin – 27 dicembre 2012

Leggo dai vari quotidiani il freddo commento di Bersani riguardo l’impegno di Monti alle prossime politiche. E traspare in modo inequivocabile l’unica preoccupazione di questo segretario, che è la preoccupazione di ogni politico di “professione” e non per mandato.

Intervista del TG2 a Bersani

Intervista del TG2 a Bersani

Da Repubblica, un sunto dall’intervista con il TG2:“Massimo rispetto per Monti, ma aspettiamo di vedere se sarà sopra lo parti oppure no”, “Lo abbiamo sostenuto in momenti molto difficili – aggiunge – Ora aspettiamo di vedere se si collocherà al di sopra o piuttosto con una parte. Questo andrà chiarito”.
Quindi: Monti è indispensabile per la salvezza del nostro paese? Se sì, non ha importanza da chi verrà sostenuto. L’obiettivo è salvare il paese dal disastro in cui siamo.
In realtà, traspare palesemente, la preoccupazione di Bersani è che l’autorevolezza di Monti, sia in campo nostrano sia in quello internazionale, vada ad affrancare parti politiche avverse, il centro destra, a discaptito anche o soprattutto del PD.
Qui si tratta, sempre ed ancora una volta, di curare e preoccuparsi solo ed esclusivamente del proprio orto, dei propri interessi.
Pare evidente da questi momenti di poca lucidità, che si trasformano in involontaria ed innocente trasparenza, che Monti (per Bersani come per qualsiasi altro segretario di partito) non è tanto una minaccia o una risorsa per l’Italia, quanto piuttosto una minaccia o una risorsa per se stessi, indipendentemente da ciò che il nostro paese può trarne.
E’ anche, e non solo per questo, che l’elettore dovrebbe avere una cosciente repulsione verso questa nociva, vetusta e mutante idea di politica.

A difesa di Bersani potrebbe essere mossa l’argomentazione di un PD interessato a sostenere e difendere il più possibile lo stato sociale all’interno di una politica recessiva. Cioè, una sorta di parte conciliatrice tra necessità di bilancio e necessità sociali. Ma tale ipotesi non è affrancata dai fatti incontestabili cha hanno contraddistinto la mutazione del più grande partito di sinistra in un ibrido, senza arte ne parte, che nei decenni ha tradito la sua missione di rappresentante istituzionale a tutela delle fasce sociali deboli e lavoratrici in un neo sostenitore del mercato senza regole (…o che si autoregola con l’assenza di regole, grazie alla mano invisibile…). Inutile la complessa, corposa lista delle battaglie perse dai lavoratori grazie soprattutto alla mancanza di un partito che li rappresenti veramente in sede istituzionale, e di vergognosi sindacati che ormai svolgono solo la funzione di applicazione della politica del partito di riferimento, non prevedendo più la funzione di portatori d’istanze del mondo del lavoro.

Ormai dobbiamo farcene una ragione: non c’è più la sinistra perchè non c’è più la politica. E non c’è più politica perchè non c’è più la sinistra.

A seguire, sempre come riportato da Repubblica:“Parlando invece con il Finacial Times, il leader democratico sostiene di essere “pronto a discutere” la proposta tedesca per un supercommissario Ue all’economia che monitori le politiche di bilancio nazionali, piano che “non mi spaventa purché l’intenzione sia di costruire fiducia e permetterci, pur in maniera controllata e selettiva, politiche di più ampio respiro” volte alla crescita”.

Leggasi: non ostacolare, anzi favorire un percorso per il commissariamento, per la perdita progressiva di ogni fondamentale sovranità. Morte pianificata delle funzioni dello Stato come autonomia di un popolo nelle decisioni di rilancio dell’economia e nell’interpretazione ed applicazione della giustizia sociale. Precisando che l’idea di giustizia sociale è tutt’altro che un paradigma universale, ma assume priorità e significati diversi a seconda della cultura di ogni popolo.

Ed è questo, credo, l’argomento fondamentale, quello di una pianificazione di un’Europa di una élite unita finanziariamente ma sempre più disgregata al suo interno, a livello popolare, proprio a causa di un sacrificio inaccettabile che è quello dell’annullamento del multiculturalismo. Un multiculturalismo che esiste solo se si manifesta localmente nell’applicazione quotidiana dei propri valori in ogni ambito sociale: la famiglia, la scuola, il lavoro, le religioni, gli associazionismi, l’arte, le varie reti di rapporti sociali. Ed ogni popolo deve avere il diritto di poter applicare i propri valori per affermare se stesso, la propria unicità, che è una ricchezza per se stesso e per gli altri.

L’idea di una integrazione europea può essere valida solo ed esclusivamente nel rispetto delle diversità dei popoli e delle culture, evitando omologazioni indotte o imposte dalle convenienze dei pochi.

Così come più acutamente spiega Zygmunt Bauman:

Zygmunt Bauman

Zygmunt Bauman

L’Europa è stata, per secoli, un insieme composito che ogni giorno metteva in contatto tante lingue e tanti filoni culturali e li faceva dialogare tra loro. […]L’Europa è stata e rimane la patria della traduzione perenne; nel corso di questo processo ha imparato a rendere il dialogo tra idiomi culturali e linguistici efficace e profiquo senza eclissare l’identità di nessuno dei partecipanti. Ha imparato (per dirla con Franz Rosenzweig) a trattare gli interlocutori di una conversazione come soggetti dotati di lingua e non solo di orecchie, che parlano oltre ad ascoltare. Balibar sostiene che questa tradizionale capacità pratica di parlare/ascoltare, insegnare/apprendere, capire/farsi capire (in breve, di tradurre) potrebbe essere sviluppata <<estendendo l’idea di traduzione da traduzione delle lingue a traduzione delle culture>>.

Il Movimento 5 Stelle e la collaborazione di Paolo Barnard.

Il Movimento 5 Stelle e la collaborazione di Paolo Barnard.

di Roberto Goldin – 23 dicembre 2012

Secondo i vari sondaggi e proiezioni di voto per le politiche del 2013 sta aumentando una polarizzazione tra gli elettori distribuendosi tra votanti (62%) e non votanti, tra il PD e il PDL (1).

Sondaggio elettorale Bidimedia - 21 Dicembre 2012

Sondaggio elettorale Bidimedia – 21 Dicembre 2012

Io leggo questo ed il resto o non conta, o conta veramente poco.
C’è un brodo di cultura che permette alla politica di rigenerarsi e di mutare se stessa in base a nuove situazioni. La gente sta capendo questo, sa di non poter trovare strumenti alternativi all’interno del brodo di cultura “democrazia rappresentativa”.
Chi ancora ci crede, il 62%, all’interno di esso si polarizza ulteriormente tra due partiti che, per scongiurarne la propria fine, di più assimilano le ridotte prospettive della democrazia rappresentativa con la continua mutazione, assimilandolo nel patrimonio genetico e diventando codice di ciò che saranno anche in futuro.
E ciò accade anche agli organismi interni di questi due virus-partiti. Lo abbiamo visto di recente con le primarie del PD, con la polarizzazione Bersani-Renzi. E lo abbiamo visto nel PDL con la ridiscesa in campo di Berlusconi vs. Alfano.
Mutazione-polarizzazione. Nessuna novità.
No. C’è una novità, forse.
Una novità che possa essere presa seriamente in considerazione, viste le proiezioni, è il Movimento 5 stelle.
Io sono stato, e sono ancora, molto critico verso il M5S. Ho veramente l’impressione che nasconda in se la vera missione di “contenitore del dissenso”.
Ma ho alternative? No. Non è il momento di perdersi in astrattismi. Non è l’ora di filosofia è l’ora di officina. Bisogna tirarsi su le maniche e sporcarsi le mani. Fare il meglio che si può, rischiando anche di ottenere un risultato lontano dalle aspettative. Ma non c’è alternativa.
Se non quella di inventare nuovi paradigmi politici alternativi alla democrazia rappresentativa. Ma, vista la demenza e l’ignoranza del cittadino elettore, vista l’irresponsabilità legittimata dall’errata concezione della rappresentatività, vista l’impossibilità di percorsi intellettuali diversi dallo stereotipo…direi che è un’ipotesi impraticabile, almeno qui in Italia.

Detto ciò, per arrivare all’obiettivo indicato nel titolo di questo articolo, vorrei far presente che, in realtà, c’è già stata in passato un’esperienza vagamente simile al M5S. Un’esperienza che aveva come presupposto quello di stravolgere la politica istituzionale, rinnovandola e pulendola. Questa era la missione dell’Italia dei Valori, di cui io sono stato attivista per qualche anno.

E’ stata ed è un’esperienza fallimentare. L’ho vissuta di prima persona. Di tutto ciò che avrei da dire sull’IdV, per rimanere in tema, dico solo che al suo interno mancavano strutture e conoscenze fondamentali per un partito di governo. L’IdV è stata ed è presente con i banchetti nelle piazze di tutti i paesetti d’Italia, perché l’attivismo non manca. Ma poi manca la politica estera. Manca l’economia. Manca il progetto di un partito di governo. Ed infatti eccola ancora là, che dal 7% dei momenti d’oro ora ha il 2-3%.

Se riteniamo, viste le proiezioni, che l’unica novità che possa avere una speranza di governo sia il M5S, possiamo fermarci un attimo e chiederci:”Quale politica estera ha? Quale progetto economico-sociale ha?”. “Chi sono gli autorevoli riferimenti in tali materie all’interno del movimento?”. “Questo movimento è realmente aperto ad ogni seria proposta politica, anche se comunemente sentita all’esterno del movimento?”.

ME-MMT

ME-MMT

C’è una speranza reale e tangibile per la nostra economia. Si chiama ME-MMT, ed è nota, se non addirittura materia di studio, tra gli attivisti M5S.

Il suo fondatore è Warren Mosler, e Paolo Barnard ha il merito incontestabile d’aver impegnato se stesso nello studio di questo modello economico e d’averlo importato in Italia.

Nel corso del 2012, a febbraio e ad ottobre, si sono svolti due summit nazionali, con una vasta e quanto mai eterogenea e trasversale partecipazione di cittadini, coinvolgendo studenti, lavoratori dipendenti, associazioni di imprenditori, disoccupati, giovani ed anziani. Ovvero cittadini che hanno capito, autofinanziando gli eventi e mettendo a disposizione il loro tempo,  che l’unica possibilità di poterci guadagnare una via di salvezza è l’unione in un progetto economico.

Se M5S è la nostra speranza di rinnovamento della scena politica istituzionale, l’ME-MMT non può non

Paolo Barnard a L'ultimaparola Rai2.

Paolo Barnard a L’ultimaparola Rai2.

essere considerata l’unica autorevole risorsa per un programma di salvezza economica, e Paolo Barnard ne è l’ambasciatore.

Un M5S senza ME-MMT, senza Paolo Barnard come consulente economico, è un’IdV mutato in M5S.

(1): fonte: http://www.sondaggibidimedia.com/

Dopo la fine della rappresentanza – Disobbedienza e processi di soggettivazione

Dopo la fine della rappresentanza

Disobbedienza e processi di soggettivazione

Maurizio Lazzarato – alfabeta2 – 25

alfabeta2

Le forme collettive di mobilitazione politica contemporanea, che si tratti di sommosse urbane o di lotte sindacali, che siano pacifiche o violente, sono attraversate da una stessa problematica: il rifiuto della rappresentanza, la sperimentazione e l’invenzione di forme di organizzazione ed espressione in rottura con la tradizione politica moderna fondata sulla delega del potere e dei rappresentanti del popoli e delle classi. Il rifiuto di delegare la rappresentanza di ciò che è divisibile ai partiti e ai sindacati e la rappresentanza di ciò che è comune allo Stato, trova la sua origine in una nuova concezione dell’azione politica derivata dalla <<rivoluzione>> del ’68.

Le mobilitazioni che sorgono un po’ ovunque nel mondo affermano che all’interno della democrazia rappresentativa <<non ci sono alternative>> possibili.

Il rifiuto, la disobbedienza che abitano queste lotte cercano e sperimentano delle nuove azioni politiche all’interno della crisi. Ma di quale crisi si tratta e quali tipi di organizzazione politica si esprimono nella crisi?

Félix Guattari

Félix Guattari

In un seminario del 1984, Félix Guattari afferma che la crisi che l’Occidente attraverso dall’inizio degli anni settanta, prima di essere una crisi economica, prima di essere una crisi politica, è una crisi di produzione di soggettività. Come intendere quest’affermazione?

Se il capitalismo <<propone dei modelli (di soggettività) come l’industria automobilistica propone delle nuove serie>> allora, la posta in gioco più grande di una politica capitalistica risiede nell’articolazione di flussi economici, tecnologici e sociali con la produzione di soggettività, in modo tale che l’economia politica non sia altro che <<economia soggettiva>>. Questa ipotesi di lavoro merita di essere ripresa e prolungata nella situazione contemporanea a partire da una constatazione: il neoliberalismo ha fallito nell’articolare questo rapporto.

La generalizzazione della soggettivazione imprenditoriale, che si esprime nella volontà di trasformare ogni individuo in impresa, rivela alcuni paradossi. L’autonomia soggettiva, l’attivazione, l’impegno soggettivi, costituiscono nuove forme di impiego e quindi, propriamente parlando, una eteronomia.

D’altra parte, l’ingiunzione all’azione, alla presa d’iniziativa e al rischio individuale, sfociano nella depressione, malattia del secolo, espressione del rifiuto di assumere un’omologazione e un impoverimento dell’esistenza portato dalla <<riuscita>> individuale del modello imprenditoriale.

Come ci addentriamo nella crisi, aperta dai tracolli <<finanziari>> a ripetizione, il capitalismo abbandona la sua retorica della società della conoscenza o dell’informazione, e le sue mirabolanti soggettivazioni (i lavoratori cognitivi, i manipolatori di simboli, i creativi sconfitti e i vincenti). Una volta che le promesse di arricchimento di tutti, attraverso il credito e la finanza, sono crollate, non rimane che una politica di salvaguardia dei creditori, proprietari dei titoli del <<capitale>>.

Per affermare la centralità della proprietà privata, l’articolazione tra <<produzione>>  e <<produzione di soggettività>> si crea a partire dal debito e dall’uomo indebitato. Nell’economia del debito, il capitale agisce sempre come punto di soggettivazione, ma non solamente per costituire gli uni come capitalisti e gli altri come lavoratori, ma anche e soprattutto per identificarli in <<creditori>> e in <<debitori>>. Fallimento economico e fallimento nella produzione  delle figure soggettive del proprietario, dell’azionista, dell’imprenditore, vanno di pari passo. Questi fallimenti trovano la loro origine nel doppio rifiuto delle figure soggettive neoliberali: rifiuto di divenire <<capitale umano>>, e nella crisi, rifiuto di divenire <<uomo indebitato>>.

A questi rifiuti proletari e a questa impasse capitalistica, i partiti e i sindacati di <<sinistra>> non forniscono

Jeremy Rifkin L'era dell'accesso

Jeremy Rifkin – L’era dell’accesso

alcuna risposta, poiché non dispongono più di soggettività di ricambio da proporre. Le stesse teorie critiche contemporanee falliscono pensando al rapporto tra capitalismo e processo di soggettivazione. Il capitalismo cognitivo, la società dell’informazione, il capitalismo culturale (Rifkin) rappresentano l’articolazione tra produzione e soggettività in maniera molto riduttiva. La loro pretesa di costituire un paradigma egemonico per la produzione e la produzione di soggettività è sconfessata dal fatto che, il destino della lotta di classe, per come si mostra con la crisi, non sembra giocarsi intorno alla conoscenza, all’informazione e alla cultura.

Quali sono, quindi, le condizioni per una rottura politica ed esistenziale nell’epoca in cui la produzione di soggettività costituisce la prima, e la più importante, delle produzioni capitaliste? Quali sono gli strumenti specifici della produzione di soggettività per eludere la sua fabbricazione, industriale e seriale, organizzata dalle imprese e dallo Stato? Quali modalità di organizzazione costruire per un processo di soggettivazione che sfugga sia all’assoggettamento, sia all’asservimento?

Michel Foucault

Michel Foucault

Negli anni Ottanta Foucault e Guattari, attraverso percorsi differenti, designano la produzione di soggettività e la costituzione del <<rapporto con il sé>> come i problemi politici contemporanei che da soli, forse, possono indicare delle vie d’uscita  dall’impasse in cui siamo impigliati.

Per Foucault partire dalla <<cura di sé>> non significa inseguire l’ideale <<dandy>> di una <<vita bella>>, ma porre la questione di un intreccio tra <<estetica dell’esistenza>> e una politica che le corrisponda. I problemi di <<una vita altra e un mondo altro>> si pongono insieme, a partire da una vita militante, in cui la premessa è costituita dalla rottura delle convenzioni, delle abitudini, dei valori stabiliti. Il paradigma estetico di Guattari non incita nemmeno a un’estetizzazione del sociale e del politico, ma a fare della produzione di soggettività la pratica e la preoccupazione principale di una nuova modalità di militanza e di un nuovo modo di organizzarsi politicamente.

I processi di soggettivazione e le loro modalità di organizzazione hanno sempre dato luogo a dibattiti cruciali all’interno del movimento operaio che sono stati occasione  di rottura e di divisioni politiche tra <<riformisti>> e <<rivoluzionari>>.

Non possiamo comprendere la storia del movimento operaio se ci rifiutiamo di vedere le <<guerre di soggettività>> (Guattari) a cui ha portato. <<Il tipo di operaio della Comune di Parigi  è diventato talmente “mutante” che non c’è altra soluzione per la borghesia che sterminarlo. Abbiamo liquidato la Comune di Parigi, come in altre epoche le riforme di Saint Barthélémy>>. I bolscevichi si sono posti esplicitamente la questione dell’invenzione di un nuovo tipo di soggettività militante, che, tra l’altro, doveva rispondere al fallimento della Comune.

Interrogare i processi di soggettivazione politica partendo dal mettere in luce la dimensione della <<micro-politica>> (Guattari) e della <<micro-fisica>> del potere (Foucault) non esonera dalla necessità di attraversare e riconfigurare la dimensione macro-politica. <<Di due cose l’una o l’altra: o qualcuno, chiunque, produrrà dei nuovi strumenti di produzione di soggettività che siano essi bolscevichi, maoisti o non importa chi; oppure la crisi continuerà ad accentuarsi>>.

Questo passaggio alla macro-politica che Guattari invoca in questa citazione, mi sembra tanto più necessario in quanto siamo in una situazione totalmente differente da quella degli anni Settanta. In quel periodo l’urgenza era  piuttosto quella di uscire da una macro-politica  pietrificata e sclerotizzata visibile nei programmi  dei partiti comunisti e dei sindacati. Oggi, dato che queste forze sono o sparite o completamente integrate  nella logica del capitalismo,  quello che importa è inventare, sperimentare e affermare  una macro-politica capace, da una parte, da farci uscire dalla democrazia rappresentativa (politica e sociale) e di collegarci a quella che Guattari definisce <<rivoluzione molecolare>>. Dall’altra parte, bisognerebbe riattivare l’utilizzo della forza, di un potere di blocco e sospensione dell’assoggettamento e dell’asservimento, che possa giocare la stessa funzione dello sciopero nel capitalismo industriale. Senza questo la frangente neoliberale applicherà integralmente il suo programma: ridurre i salari al livello della sopravvivenza, ridurre i servizi dello Stato Sociale (Welfare State) al minimo, privatizzare tutto ciò che resta ancora nel dominio <<pubblico>>, facendo scivolare la popolazione nel processo regressivo dell’uomo indebitato.

Guattari a suo modo, non è solamente rimasto fedele a Marx, ma anche a Lenin. Sicuramente, gli strumenti di produzione di soggettività che il leninismo ha creato (il partito, la concezione della classe operaia come avanguardia, il <<militante di professione>> ecc.) non sono più adatti alla composizione di classe attuale. Ma ciò che Guattari mantiene della sperimentazione  leninista è la metodologia: la necessità di rottura con la <<social-democrazia>>, la costruzione di strumenti di innovazione politica che si dispiegano sulle modalità di organizzazione della soggettività.

Per Guattari l’affermazione di questa autonomia politica è stata, prima di tutto, espressa dalla rottura soggettiva praticata dalla Prima Internazionale  che ha letteralmente inventato una classe operaia che ancora non esisteva (il comunismo ai tempi di Marx si appoggiava essenzialmente sugli artigiani e i <<compagni>>). Nel capitalismo, i processi di soggettivazione devono a loro volta articolarsi e liberarsi dai flussi economici, sociali, politici, macchinici. Le due operazioni sono indispensabili: partire dalla presa che l’asservimento e l’assoggettamento esercitano sulla soggettività e organizzarne la rottura, che è sempre un’invenzione e una costituzione del sé.

Le regole della produzione del sé sono quelle <<facoltative>> e processuali che inventiamo costruendo dei <<territori sensibili>> e una singolarizzazione  della soggettività a livello micro-politico e delle disposizioni collettive  di enunciazione a livello macro-politico. Da qui il ricorso, non tanto a degli strumenti e a dei paradigmi cognitivi, informazionali o linguistici, ma a degli strumenti e a dei paradigmi politici che sono etico-estetici, il <<paradigma estetico>> di Guattari e l’<<estetica dell’esistenza>> di Foucault.

Per produrre un nuovo discorso, una nuova conoscenza, una nuova politica, bisogna superare un punto innominabile, un punto di non-racconto assoluto, di non sapere, di non cultura, di non conoscenza. Da qui l’assurdità (tautologica) di pensare la produzione  come produzione di conoscenza a mezzo di conoscenze. Le teorie del capitalismo cognitivo, della società dell’informazione, del capitalismo culturale, che si propongono come teorie dell’innovazione e della creazione, falliscono precisamente nel pensare il processo attraverso cui si fanno la <<creazione>> e l'<<innovazione>>, poiché il linguaggio, la conoscenza, l’informazione e la cultura sono largamente insufficienti a questi fini.

La soggettivazione politica, per prodursi, deve passare necessariamente da questi momenti di sospensione dei significati dominanti e dalla neutralizzazione del meccanismo di asservimento macchinico. Lo sciopero, la rivolta, la sommossa, le lotte costituiscono dei momenti di rottura e sospensione del tempo cronologico, di neutralizzazione di assoggettamenti e di asservimenti, dove si manifestano, non tanto le soggettività vergini e immacolate, ma i focolai, le emergenze, le cariche di soggettivazione, la cui attualizzazione e proliferazione dipende da un processo di costruzione che deve articolare, senza passare per le tecniche di rappresentazione, il rapporto tra <<produzione (desiderante>> e <<soggettivazione>>.

Se la crisi non produce altro, d’ora in poi, che assoggettamenti e asservimenti negativi e regressivi (l’uomo indebitato), se il capitalismo è incapace di articolare produzione e produzione di soggettività in altro modo, se non riaffermando la salvaguardia dei titoli di proprietà del capitale, allora gli strumenti teorici devono essere capaci di pensare le condizioni di una soggettivazione politica che sia anche una mutazione esistenziale in rottura con il capitalismo, all’interno della sua crisi che è già divenuta storica.

Un immaginario nuovo – Soggettività disobbedienti e dominio.

Un immaginario nuovo
Soggettività disobbedienti e dominio
di Marco Scotini – alfabeta2 – 25

alfabeta2

L’affermazione contemporanea (quotidiana, capillare, generalizzata) di macchine di coazione all’obbedienza sempre più potenti tradisce un’ammissione originaria, irrefutabile, preventiva: il riconoscimento di fatto ce la disobbedienza sia diventata ormai forma (operativa e simbolica) del dissenso globale. Nonostante tutto, dalle proteste anti-WTO di Seattle alle strategie messe in piazza dal movimento Occupy, non siamo riusciti ancora a ricondurre l’agire disobbediente (la molteplicità di suoi modi, delle sue storie e delle sue geografie) su un piano politico vero e proprio.

A fronte della più che decennale proliferazione molecolare di mobilitazioni dal basso, del dispiegamento globale di forze sociali insubordinate e antagoniste, della emersione di network eterogenei e plurali, pare ci sia oggi un’impossibilità di raccogliere la stratificazione di tutto ciò entro una nuova soggettività militante.

Così come ancora non appare possibile far precipitare questo enorme potenziale sotto una nuova concezione dell’azione politica all’altezza dei tempi e in grado di produrre un orizzonte di rottura sociale decisiva con il comando capitalistico: un orizzonte macro-politico, plurale, continuo, efficace.

L’impressione generale è che il potenziale eversivo delle mobilitazioni contro l’ordine contemporaneo si esaurisca, ogni volta, con l’evento stesso a cui esse hanno dato luogo, senza che questo abbia la capacità di far sedimentare protagonismi sociali e prassi organizzate in una nuova forza politica, in una struttura stabile di potere.

Allora, qualche domanda categorica s’impone. Abbiamo a che fare con un vero e proprio gap politico perchè siamo ancora legati a categorie classiche fondate sul soggetto rivoluzionario e su un’idea di rappresentanza che impediscono una lettura adeguata degli eventi in corso (e delle loro possibilità politiche)? Piuttosto che della mancanza di un reale spazio di politicizzazione da vedere, si tratterebbe dunque di un’incapacità di guardare? Oppure è nella stessa natura della disobbedienza il fatto di sfuggire a una teorizzazione stabile per acquistare senso e spessore  teorico in relazione alle sue determinazioni pratiche (contingenti e locali), al suo concreto accadere storico qui e ora? O non ci troviamo piuttosto di fronte a un processo di innovazione radicale del conflitto sociale in cui la disobbedienza, tutt’altro che essere un deficit di produzione politica, ci spinge a immaginare un mutamento paradigmatico delle condizioni di possibilità dell’azione sociale? Quali sono i concatenamenti possibili di una politica come esperimento? Quali sono in nostri equivalenti dello sciopero, del sabotaggio, del tumulto della militanza e delle altre tecniche di lotta politica?

Eppure dai giorni di Seattle a quelli di Occupy Wall Street, dall’insurrezione zapatista a quella araba, un’identica tensione trasformativa del mondo (globale, caotica, plurale) non ha mai cessato di agire. Un nuovo orizzonte comune, trasversale a centro e periferie, si è aperto e continua sempre più ad aprirsi: un immane laboratorio di conflitto si afferma attraverso una molteplicità di focolai che si alimentano a vicenda, irrimediabilmente  concatenati tra loro, dentro lo stesso spazio globale. Al declino irreversibile del modello politico fondato sulla rappresentanza, alla nuova centralità neoliberista dell’economico e alla polizia sovrana, le mobilitazioni insorgenti rispondono con una devastante sperimentazione politica che disarticola le classiche modalità di esercizio del potere e recalcitra alle logiche della rappresentazione e della totalizzazione (forma-partito, quadri dirigenti, classi sociali, Stato). Se per Gerald Rauning il movimento

Gerald Raunig

Gerald Raunig

Occupy ci sbarazza definitivamente dall’idea di unità e di maggioranza, Maurizio Lazzarato dichiara nel testo che segue :<<Le mobilitazioni che sorgono un po’ ovunque nel mondo affermano che all’interno della democrazia rappresentativa <<non ci sono alternative>> possibili>>.

Maurizio Lazzarato

Maurizio Lazzarato

Il no attuale, il rifiuto dell’obbedienza, il dissenso contemporaneo non ripropongono una posizione dialettica con il potere ma si affermano come forze di creazione e sperimentazione: di linguaggi, dispositivi, istituzioni e soggettività. Lo spazio a cui si espongono è quello di nuovi immaginari e nuove possibilità di vita che trovano impegnati tanto modelli estetici quanto forze produttive e movimenti sociali. Dentro questa articolazione complessa e di sperimentazione non si tratta tanto di <<alleanza>> tra istanze attiviste e pratiche artistiche (o culturali) perché con questo termine si intende un <<patto comune in vista di obiettivi comuni>>. Al contrario, il nesso è a monte.[…]

Una cosa certa è che questa pratica disobbediente non è più dell’ordine della disobbedienza civile, non è

Raffaele Laudani

Raffaele Laudani

solo o affatto potere destituente, secondo l’accezione con cui Raffaele Laudani definisce la disobbedienza. Com’è noto, accanto e oltre questa concezione di stampo liberale che <<esprime una disobbedienza alla legge>> ma nei limiti della <<fedeltà a essa>>, con la crisi della modernità e del fordismo sarebbe sorta un’altra concezione di tipo radicale che avrebbe finito per mutare il carattere della disobbedienza civile in disobbedienza sociale. Una forma di disobbedienza, quest’ultima, che non può ridursi agli aspetti normativi tecnico-giuridici per essere compresa. Poiché il potere, foucaultianamente, non si basa più soltanto su modelli giuridico-istituzionali come la teoria dello Stato o della sovranità, la disobbedienza sociale si concentra adesso sui meccanismi di potere di fatto e che non sono oggetto di deliberazione. Sui modi concreti, cioè, con cui il potere penetra in maniera anonima nel corpo della società, oltre il velo delle norme formali. Se condizione della disobbedienza civile era il riconoscimento di un ente superiore che produce norme e che, come tale, non viene posto in discussione, tale ruolo di soggezione alla sovranità o a

Paolo Virno

Paolo Virno

un’entità trascendente non è più garantito dai modi della disobbedienza sociale. Come Paolo Virno non ha mai smesso di dire fino dal 1993, il primo ordine a essere violato dalla disobbedienza sociale è infatti una norma che precede tutte le altre ed è presupposta da tutte le altre. Questa norma non scritta e che nessuno mette in dubbio afferma l’obbligo di obbedienza come tale. Essa recita:<<E’ necessario obbedire alle norme>> come presupposto dell’autorità in quanto diritto di comandare e di essere obbediti. La disobbedienza sociale non viola legge ma modifica le condizioni in cui continua a proporsi il vincolo statale come tale. Con il cambiamento dello scenario economico-sociale nel capitalismo postfordista, muta anche la proposta della pratica antagonista. Le regole o i principi che presiedono alle norme della disobbedienza non sono più di tipo negativo, non indicano più i limiti che i nostri atti non dovranno vallicare ma cominciano a enunciare  princi pi di azione. Indicano cosa fare. Non affermano più solo diritti, rifiuto e resistenza ma diventano immediatamente produttive e creative. Diventano <<pratiche costituenti>>. In questo senso la disobbedienza sociale è un momento della produzione contemporanea della moltitudine o, meglio, delle nuove soggettività politiche che rappresentano il potenziale della moltitudine (moltiplicazione, rifiuto del blocco morale, composizione asoggettiva per Raunig). In particolare la disobbedienza oggi è tale da coniugare lavoro, intelletto, azione, affetti, media e comunicazione. Dunque la sua espressione autonoma e affermativa si esplica anche (e simultaneamente) nella modellizzazione di un immaginario nuovo, nella capacità di intevento nel piano simbolico, nella potenza di produrre nuovi segni e altre rappresentazioni (Marcelo Exposito).  Quando si disobbedisce produciamo noi stessi come molteplicità di modi possibili, ci autorappresentiamo. Le soggettività disobbedienti intervengono sul carattere mediatizzato della storia.  Da un alto, fanno vedere ciò che gli agenti centrali dell’autoritarismo mediatico nascondono o sottraggono alla vista. Dall’altro, cercano di riappropriarsi dell’espropriazione violenta dell’esperienza: producendo la storia, e rendendola visibile. Lavorano come dispositivi di profanazione e rivendicano un potenziale di sperimentazione rispetto alla direzione politica o al comando capitalista, concatenando media e socialità.

A questo rinnovato protagonismo pratico della disobbedienza corrisponde una produzione teorica altrettanto ricca ma che va declinata in senso operativo. L’esaurimento della rappresentanza è ormai un fatto compiuto. Perché allora non avanzare un discorso politico autonomo? In un nuovo Che fare? Perché voler continuare in questa impasse senza fare programmi, senza osare spingerci più in là?

La versione (Kantiana) di Bersani.

La versione (Kantiana) di Bersani.

di Roberto Goldin – 12 dicembre 2012

Non leggo quasi mai i quotidiani. Pur sostenendoli involontariamente con le tasse.

Oggi non sono in ufficio, mi perdo in varie cose.

Linko il sito dell’Unità: voglio capire come valuta la posizione di Bersani.

http://www.unita.it/italia/bersani-monti-non-temo-la-concorrenza-1.473514

Oh, bene: Bersani non è preoccupato dall’eventuale candidatura di Mario Monti. Ha altre priorità. Ovvero, ad esempio, quella di spingersi sempre più a destra, aumentandone sempre di più la densità e il peso.

Stiamo assistendo ad un fenomeno cosmico: si sta creando il vuoto nello spazio a causa di questo buco nero supermassiccio [definizione] che è la destra. Ingurgita tutto. Partiti di varie democrazie popolari e cattoliche, sinistre a cui l’elettore ora riappropria il corretto etimo: da sinus seno, cioè che si nasconde sotto le pieghe della veste, come appunto nella toga romana la mano sinistra. Lontane roccaforti comuniste forse non ne subiranno l’attrazione, sventolando la bandiera rossa come quelle americane nei pianeti esplorati più lontani: l’uomo ha osato ed è arrivato sin qui.

Pascal Lamy

Pascal Lamy

Questa visione apocalittica da science fiction cinematografica coincide con varie date di pluriannunciati armagheddon e trova il suo colle, il suo Har di Har Megiddo, a Roma dove verrà svolto un conclave tra leader progressisti planetari, con l’autorevole partecipazione del direttore generale del Wto Pascal Lamy, presidente onorario del think-tank “Notre Europe” creata da Jacques Delors collaboratore e sostenitore di uno dei padri del nostro disastro, François Mitterrand.

Così, per rimanere in ambito cine-apocalittico, come fa Keanu Reeves in Constantine per dimostrare di poter entrare nell’esclusivo club dell’aldilà, anche Bersani ha la sua parola d’ordine “il centrosinistra «è la forza più europeista che ci sia in Italia»”. Ma non la sussurra, la urla quasi implorando l’attenzione.

Zygmunt Baumann, in L’Europa è un’avventura, dice che il mondo hobbessiano di nazioni europee forti ed arroganti nel mondo ha lasciato il posto a quello Kantiano di una Europa della pace, ma lo dice in questo modo:

[…]la realtà di un mondo Hobbessiano è un premio gradito – e la prima scelta – soltanto pe chi può permetterselo, per chi ha forza e vigore, mentre il sogno di una pace perpetua kantiana è la consolazione del debole o l’alibi di chi è stanco e sconfitto.

Non è un’incitazione al ritorno della competizione nazionale nel territorio anarchico sovranazionale. E’ una constatazione. La constatazione di un’Europa, frontiera della civiltà occidentale in netto declino, che si richiude in se stessa, accettandone e imponendo i peggiori compromessi.

RG

Necropolitica: ovvero, dalle catacombe del web ai processi politici ai morti.

Necropolitica: ovvero, dalle catacombe del web ai processi politici ai morti.

di Roberto Goldin – domenica 2 dicembre 2012

Se mi venisse chiesto di fare un resoconto, di trarre le somme, dopo mesi e mesi di sostegno all’MMT, probabilmente risponderei in modo inatteso, divagando. Ed è quello che farò.

Il resoconto ha a che fare inizialmente con me.

E, per non annoiare con ridicoli discorsi introspettivi, lo sintetizzerei in questo modo.

formazione

Il più grande crimine” è stato un pugno allo stomaco. Ed è arrivato in un momento in cui anche le mie aspettative come attivista politico andavano in frantumi.
Questa combinazione, la disillusione dalla politica e il disegno catastrofico di una società guidata da una finanza neoliberista, ha creato il panico non solo in me ma anche tra quelle comunità prevalentemente manifeste nel web.
Il web.
A chi ha perso ogni speranza nell’attivismo politico della vita reale, il web si propone come spazio democratico, ha un facile accesso e dispone di potenti mezzi comunicativi. C’è chi ha definito questo spazio come nuove catacombe. Sarei d’accordo. Ma teniamo presente cos’è nato dalle catacombe.
Penso che Barnard si sia accorto progressivamente che nel web, anche se spazio indegno, abitato dalla più eterogenea folla di ignoranti, si stava condensando un gruppo di suoi sostenitori: un potenziale che però era gravemente condizionato dalla mancanza di una guida e dalla dipendenza da web. Ciò lo ha portato ad accettare la sua compromissione con questa comunità, mantenendo però un certo ed evidente distacco, creato con insulti di ogni genere e di disprezzo verso l’onesto impegno individuale.
L’impegno al definitivo abbandono delle mitologie e leggende sull’economia, come ad esempio il signoraggio bancario, e la necessità di una formazione specifica diventò una priorità condivisa. Per quanto mi riguarda, il percorso si rivelerà costoso sia in termini economici sia in termini di sacrificio personale, impegnando quasi totalmente il tempo allo studio, abbandonando la mia passione per la letteratura e trascurando la famiglia.

I Barbari

I Barbari

Un’intuizione di Baricco si trasformò con “I barbari” in un saggio sulla mutazione. Cosa c’entra?
C’entra, eccome.
E’ finita un’epoca, quella post bellica. Quella post guerra fredda. Quella post ideologica. Lasciando un vuoto, uno spazio non presidiato che qualsiasi orda di barbari può invadere, prenderne possesso e devastare ciò che è rimasto.
Nemmeno il paradigma liberale, quello del libero mercato e dell’individualismo, pur in assenza di antagonisti, è riuscito ad affermarsi democraticamente nella stessa “civiltà occidentale”. Anzi, ne abbiamo visto il fallimento a partire da presupposti come Bretton Woods e da come tale paradigma sociale venga ormai imposto con coercizione da entità che con la democrazia e la rappresentatività non hanno nulla a che fare.
Questa opera di barbarie e di distruzione, come sostiene Baricco – ma non solo lui, mi viene in mente anche Morgenthau ad esempio – è però necessaria, per poter ricostruire.
E dalle individuali profondità delle nostre esperienze intellettuali emergiamo tutti ad un livello zero, come può essere il web o chissà cos’altro. Qua nascono nuovi linguaggi, nuovi modi di comunicare ed una trasformazione del rapporto tra la comunicazione, il tempo ed i nuovi mezzi. Si crea tra loro una dimensionalità diversa, fatta di collegamenti tra esperienze veloci ed eterogenee che Baricco chiama tessere d’esperienza.
Ecco perché non accetto il particolare accanimento di Barnard verso le comunità web. Barnard, in questo senso, non ha ancora imparato che si tratta di un mutamento irreversibile, come quello dalla tradizione orale a quello della scrittura.

Non sto divagando, ve lo posso assicurare. Non è ne una divagazione ne una interminabile premessa. Si tratta di capirsi bene, già dall’inizio. Ora che dobbiamo ricostruire, partendo dalle fondamenta, non m’interessa avere già in mano il progetto di dettaglio del tetto. Mi interessa che sia ben chiaro dove costruiamo queste fondamenta, e con quali materiali. Ed è un lavoro pesante e lungo che sembra non dare risultati, perché pare di rimanere sempre al livello zero.

E’ stato fatto già molto con la demolizione di tutto ciò che non aveva più riscontro con le nuove necessità. Ora non perdiamoci in seminari sulla demonizzazione di Hayek. Di Hayek non sapete nulla. Se veramente aveste letto qualche cosa di Hayek e non su Hayek, avreste capito ben altre cose di quelle che diffondete con il copia e incolla su Facebook. Vi do una notizia: Hayek è morto. E’ morto come sono morti Malthus, Adam Smith e tanti altri sui quali non vengono fatti processi. Forse del nazismo temiamo Hitler o i neonazisti? Allora lasciate stare Hayek e concentratevi su chi in questo momento ci sta privando della nostra stessa esistenza.

Come non avrebbe senso prendersela con Samuel P. Huntington, ma avrebbe senso scoprire ciò che è sempre stato alla luce del sole e che egli ha orgogliosamente sbandierato con “Lo sconto delle civiltà e il nuovo ordine mondiale”.

L’Occidente tenta e continuerà a tentare di preservare la propria posizione di preminenza e difendere i

Lo scontro tra civiltà - Samuel P. Huntington

Lo scontro tra civiltà – Samuel P. Huntington

propri interessi identificandoli con quelli della “comunità internazionale”.

Questa espressione è diventata l’eufemismo d’uso comune (in sostituzione di “Mondo Libero”) impiegato per conferire legittimità globale ad azioni che riflettono gli interessi degli Stati Uniti e delle altre potenza occidentali. L’Occidente, ad esempio, sta tentando di integrare le economie non occidentali in un sistema economico universale sotto il suo controllo. Attraverso il Fondo Monetario Internazionale e altri organismi internazionali, l’Occidente promuove i propri interessi economici e impone ad altre nazioni le politiche economiche che ritiene più appropriate.

Se si indicesse un referendum in una qualsiasi società non occidentale, tuttavia, il FMI e gli altri organismi economici internazionali otterrebbero certamente l’avallo dei ministri finanziari e di pochi altri, ma sarebbero altrettanto certamente osteggiati dalla stragrande maggioranza della popolazione, che concorderebbe certo con la descrizione dei funzionari del FMI fatta da Georgji Arbatov:<<neo-bolscevichi che amano appropriarsi del denaro altrui, imporre norme di condotta politica ed economica estranee e non democratiche e soffocare la libertà economica>>1 .

1 Georgji Arbatov, <<Neo-Bolsheviks of the I.M.F.>>, in <<New York Times>>, 7 maggio 1992, p.A27.